Cristina Barbieri
Giuseppe De Nicolao
L’approvazione di un modello di riparto può sembrare un argomento ricco di risvolti tecnici, ma inesorabilmente noioso. In realtà, un’indagine anatomica dei suoi retroscena tecnici e politici può riservare sorprese e colpi di scena. Vi mostreremo perché uno studente di matematica ne vale cinque di giurisprudenza. Prenderemo spunto dalla “leggenda del rettore fannullone” per smontare il traballante oracolo bibliometrico del modello di riparto, utilizzando come esempio proprio la produzione scientifica del “primus inter pares”. Infine, tra meduse, alberi e mercanti in fiera, vi accompagneremo attraverso tutti i passaggi di un processo decisionale, forse poco esemplare, ma che ha molto da insegnare per il futuro.
Nel titolo di questo articolo il termine “riparto” ha un duplice significato: da un lato indica il “modello di riparto”, ovvero quelle formule matematiche che distribuiscono le risorse a livello nazionale – tra gli atenei – oppure a livello locale – tra i dipartimenti. Dall’altro, si riferisce all’operazione di “ripartizione” – quantitativa e qualitativa – di risorse contenuta nel piano triennale pavese recentemente approvato dagli organi di governo. Sono due significati che si riferiscono a livelli diversi, uno più teorico e l’altro più politico. E tuttavia i due piani vanno studiati e compresi insieme: le insufficienze del modello teorico pavese e l’indisponibilità a mettervi mano non si capirebbero senza analizzare i tempi e le modalità con cui prende forma la “ripartizione” vera e propria.
Seguiremo un approccio “top-down”. Partiremo da quali scopi abbia e come si definisca un “modello di riparto” per passare ad un esame, seppur preliminare, di alcuni elementi di continuità e di discontinuità del modello pavese rispetto a quello nazionale. Senza pretesa di completezza, questo primo sguardo evidenzierà aspetti problematici e meritevoli di riflessioni strategiche, che, tuttavia, sul piano operativo sono di regola scavalcate sull’onda dell’urgenza. Passeremo pertanto ad un’analisi della “politica dell’urgenza”, procedendo poi ad un esame ragionato dei passaggi, delle regole e degli attori che hanno condotto all’approvazione del piano triennale pavese. Una sorta di “backstage”, non però orientato alla rivelazione di retroscena e dietrologie, quanto piuttosto alla messa a nudo degli ingranaggi – più o meno impliciti – che hanno governato il processo decisionale. Tutto ciò ci permetterà di tirare qualche conclusione sulle vere sedi decisionali e sul ruolo del modello di riparto, non senza lasciare aperta una domanda fondamentale sulla politica del personale dell’ateneo pavese.
1. Modello di riparto: cosa e perchè
Nell’estate 2013, gli organi di governo dell’ateneo pavese hanno dedicato tempo ed energie nella programmazione triennale e nella distribuzione delle risorse. Nel corso di queste discussioni, si è spesso fatto riferimento al “modello di riparto”. Ma cosa è e a cosa serve il modello di riparto? La risposta a livello nazionale fornita dal CNVSU (Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario – il precursore dell’ANVUR) è questa:
Le ragioni che portano a preferire un modello complessivo (una formula) per la ripartizione delle risorse attribuibili alle istituzioni universitarie possono essere indicate sinteticamente come segue.
Un modello:
- è riferimento generale ed è indipendente dalla disponibilità e dall’entità di risorse di FFO da distribuire;
- fornisce indicazioni qualitative e quantitative per le scelte di ogni ateneo e per il suo riequilibrio interno;
- permette la stima, sia locale sia nazionale, dei costi e dei risultati conseguenti l’attivazione di nuove iniziative didattiche, di ricerca e di servizi;
- costituisce supporto previsionale anche per gli interventi di programmazione del sistema;
- permette di rivedere periodicamente il peso da attribuire a ciascuna variabile in funzione delle priorità di specifici obiettivi e della “sensibilità” del modello stesso in relazione ai risultati ottenuti;
CNVSU, “Proposte per la costruzione di un nuovo modello per la ripartizione “teorica” del FFO alle università statali”, DOC 1-04, p. 7
A livello nazionale, la concreta applicazione avviene con la ripartizione della “quota di riequilibrio” del fondo per il finanziamento ordinario.
Per quanto riguarda l’ateneo pavese, è possibile reperire una descrizione del modello di riparto all’interno della Relazione NuV 2007 (pp. 28-37), dove si fa riferimento alla Delibera 28 ottobre 2002 del CdA in cui, tra le altre cose viene previsto
l’introduzione del budget attivo di Facoltà per il personale docente, basato su “punti” corrispondenti ai costi medi a regime nel ruolo
come pure
nel solo caso di cessazioni dal servizio per raggiunti limiti di età o dimissioni, il trasferimento del 20% dei punti liberati in un fondo a disposizione del Senato Accademico, al quale compete di riassegnarli alle Facoltà sulla base di un apposito “modello di riparto, basato su indicatori relativi a quantità e qualità delle varie attività istituzionali”.
La definizione riportata nella relazione NuV assimila l’ateneo ad una “holding”:
Il modello muove dall’assunto che le relazioni intercorrenti tra l’Amministrazione dell’Ateneo e le sue strutture operative (Facoltà e Dipartimenti) possano essere assimilate a quelle esistenti all’interno di un gruppo, tra le aziende partecipate (con partecipazione pari al 100%) e la holding o capogruppo. L’Amministrazione dell’Ateneo introita le principali entrate (Fondo di Finanziamento Ordinario e contribuzione studentesca) e provvede ad erogare le risorse (personale, dotazioni, spazi, ecc.) che le strutture didattiche e di ricerca utilizzano per lo svolgimento dei propri processi. Alcuni di questi processi generano ulteriori proventi, di cui quota parte ritorna alla holding. Ne consegue che le risorse erogate devono essere commisurate al contributo che le strutture danno alle entrate complessive dell’Ateneo in termini di FFO e di contribuzione studentesca. […]
Il modello di riparto definisce un organico teorico o standard delle strutture didattiche e ne effettua il confronto con le risorse di docenza attuali (misurate in termini di budget disponi- bile). L’organico standard viene determinato in relazione al contributo delle strutture didattiche alle due principali voci di entrata dell’Ateneo (FFO e tasse e contributi pagati dagli studenti).
Il punto di partenza è pertanto rappresentato dall’applicazione a livello locale del modello predisposto in sede nazionale per la ripartizione del FFO18. Per fare ciò, va determinato il “peso” riferibile ad ogni struttura didattica, utilizzando gli indicatori previsti nel modello con analoga rilevanza percentuale.
Ma in pratica, cosa succede? In ultima istanza, il paragone tra le risorse attuali (budget disponibile) delle strutture e le risorse teoriche (organico standard) consente di determinare quali strutture siano in condizione di sofferenza rispetto alle prestazioni erogate e pertanto meritevoli, in quanto “deficitarie”, di futuro riequilibrio, a spese delle strutture “eccedentarie” (più teste che prodotto):
In essa, il confronto tra la distribuzione del budget disponibile (colonna A) e la distribuzione dell’organico standard (colonna B) di ciascuna struttura didattica consente di quantificarne la differenza assoluta. Le strutture per le quali la suddetta differenza risulta positiva saranno denominate, nel seguito, strutture deficitarie. Quelle per le quali la differenza è negativa saranno denominate strutture eccedentarie.
Insomma, essere “deficitari” è il prerequisito per avere una maggiore quota di risorse, almeno fino a luglio 2013. Ma sugli eventi più recenti torneremo dopo.
Se ci si pone l’obiettivo di analizzare il modello di riparto pavese, ci sono due aspetti che devono essere presi in considerazione: ereditarietà e mutazione. In primo luogo, in che misura e modo vengono ereditate le regole di riparto nazionale le quali determinano la quota del FFO nazionale assegnata all’ateneo. D’altro canto, quale strumento strategico dell’ateneo, occorre verificare anche dove, come e quanto la “mutazione” locale si discosti dalla mera traslazione delle regole nazionali. Naturalmente, si tratta di un esercizio che richiede uno sforzo adeguato di ricerca ed analisi, ragion per cui ci limitiamo – per il momento – ad esaminare due aspetti, uno relativo all’ereditarietà nei confronti del modello nazionale per quanto riguarda il peso da attribuire allo sforzo didattico, l’altro relativo ad una significativa mutazione locale per quanto riguarda la misura bibliometrica della ricerca.
2. L’ereditarietà: i geni del CNVSU
Tra le regole che il modello pavese eredita dal modello nazionale c’è la stima dello sforzo didattico valutata in termini di studenti iscritti. A tale proposito il modello pavese cita esplicitamente il documento CNVSU che costituisce la base del modello nazionale:
N° di Studenti pesati (StiCP) – Peso 33%: per la determinazione del numero di studenti da attribuire ad ogni Facoltà si considerano gli Studenti in corso (STIC)20 dell’AA 2007/08, il numero di studenti così determinato viene moltiplicato per i coefficienti definiti dal CNVSU in relazione ai quattro gruppi di classi già identificati per la verifica dei requisiti minimi (tali coeffi- cienti rappresentano una stima dei diversi fabbisogni di risorse – personale, laboratori, ecc. – che caratterizzano i differenti corsi di studio) (21);
(21) I coefficienti dei quattro gruppi di classi sono i seguenti: gruppo A peso 5; gruppo B peso 3,5; gruppo C peso 2; gruppo D peso 1. I corsi dell’area sanitaria (Classi di laurea SNT/1, SNT/2, SNT/3 e SNT/4) sono stati considerati separatamente, con un peso pari a 2,5 in considerazione delle disposizioni normative che impongono un apporto di docenza appartenente ai ruoli del personale delle strutture sanitarie convenzionate.
L’elenco delle classi inserite per ogni gruppo è riportato, con riferimento alle lauree triennali e specialistiche a ciclo unico, nel documento n.04/2005 del CNVSU e con riferimento alle lauree specialistiche nel documento 19/2005 del CNVSU, disponibili alle pagine web:
http://www.vsu.it/_library/downloadfile.asp?id=11266 e
http://www.vsu.it/_library/downloadfile.asp?id=11315
Come si può vedere, su questo aspetto il modello pavese decide di sottoscrivere e di non discostarsi in nulla dal modello nazionale. Anche il ritocco dei pesi per i corsi dell’area sanitaria riflette quanto indicato a pag. 13 del documento “Il modello per la ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) all’interno del sistema universitario: riflessioni a valle dell’applicazione sperimentale prevista dal D.M. 28 luglio 2004” (CNVSU, Febbraio 2005).
Si nota subito che gli studenti vengono pesati in modo molto difforme, da un minimo di 1 fino ad un massimo di 5. Uno studente “low-cost” che frequenta un corso di laurea del Gruppo D vale un quinto di uno studente “first-class” che frequenta un corso del Gruppo A. Per capire le ragioni, vediamo a quali lauree corrispondono questi gruppi. L’informazione è reperibile in quella che può essere considerata “la madre di tutti i modelli di riparto”, ovvero il documento del CNVSU intitolato:
Proposte per la costruzione di un nuovo modello per la ripartizione “teorica” del FFO alle università statali, Doc 1/04 Gennaio 2004
Tale documento ha valenza regolamentare in quanto ad esso fanno riferimento diretto o indiretto i D.M. che ripartiscono il FFO, a partire dal Decreto Ministeriale 28 luglio 2004 n. 146, “Approvazione Nuovo Modello di Valutazione Sistema Universitario“, nella cui Scheda tecnica (http://attiministeriali.miur.it/UserFiles/1735.pdf) è citato il documento CNVSU. Ecco i raggruppamenti di lauree dal “first class” (Gruppo A) fino al “low-cost” (Gruppo D).
[Nota: riportiamo la versione reperibile alle pp. 16-17 del Doc 4/05 del CNVSU perché il Doc 1/04 omette di elencare le lauree a ciclo unico, come per esempio quella di Medicina e chirurgia]
Ecco anche i pesi secondo il documento CNVSU.
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In realtà, il D.M. 28 luglio 2004 n. 146 ha stabilito che “Per i pesi relativi ai quattro gruppi di corsi di studio valgono, in prima applicazione, le indicazioni dei valori massimi forniti nel documento del Comitato” che coincidono perfettamente con quelli del modello pavese che sposa acriticamente le scelte del CNVSU. Cosa c’è di sbagliato? Beh, risulta sorprendente, per esempio, che uno studente di Scienze e tecniche psicologiche conti 3,5 volte di meno di uno di filosofia e 5 volte di meno di uno di matematica. Perché? Per scoprirlo, leggiamo più attentamente il documento CNVSU e, in particolare, la nota [21]:
Il CNVSU adduce come giustificazione i criteri utilizzati da altri paesi e come esempio riporta solo quelli dell’HEFCE (Higher Education Funding Council for England). Però, dal confronto tra i gruppi HEFCE emergono alcune differenze macroscopiche tra le classificazioni italiane ed inglesi.
L’HEFCE attribuisce il coefficiente massimo (ovvero 4,5) solo ad una categoria molto specifica di studenti, cioè quelli che frequentano “clinical stages” di medicina, odontoiatria e veterinaria. Da notare che il coefficiente 4,5 non viene attribuito a tutti gli studenti di medicina e veterinaria, dato che viene ridotto a 2,0 per quelli che frequentano i “preclinical stages“. Il CNVSU, invece, attribuisce un coefficiente persino maggiore (ovvero 5,0) a diversi corsi di laurea che nulla hanno a che spartire con “clinical stages” di medicina e veterinaria, quali:
- Scienze della terra
- Scienze e tecnologie agrarie, agroalimentari e forestali
- Scienze e tecnologie chimiche
- Scienze e tecnologie fisiche
- Scienze e tecnologie per l’ambiente e la natura
- Scienze matematiche
- Scienze statistiche
Usando i criteri HEFCE, gli insegnamenti di questi corsi di laurea sarebbero stati classificati nel Gruppo B se “Laboratory based“, nel Gruppo C se comportavano “studio, laboratory or fieldwork” e, in gran parte o del tutto, sarebbero finiti nel Gruppo D. I pesi dell’HEFCE sono strettamente legati ai costi delle strutture cliniche, precliniche e delle attività di laboratorio o sul campo (“We used separate studies of higher education provision in FECs to assign subjects to price groups“).
In Italia, più che da una valutazione di costi, i pesi sembrano dipendere dalla numerosità massima delle classi, che, non a caso, è riportata accanto ad ogni gruppo. È una fotografia dell’esistente. Per alcune lauree è dato per naturale una folla di studenti per docente, in altre si è abituati a un docente per una manciata di studenti. Così come riesce meglio una lezione di matematica impartita a venti studenti, non lo sarebbe forse anche una lezione di psicologia? Sorge spontanea una domanda: non è che lo studente “low cost” con le sue tasse finanzia i corsi di laurea “first class”?
3. La mutazione pavese: la teratogenesi bibliometrica
Tra le scelte autonome introdotte negli ultimi anni nel modello pavese, una che riguarda la ricerca è la valutazione bibliometrica della produzione scientifica attraverso Google Scholar. Una scelta riapplicata anche nell’ultimo riparto dei punti:
In attesa della valutazione VQR dell’ANVUR per il periodo 2004-2010 si propone pertanto di adottare i criteri di valutazione della ricerca del progetto CENSIS[1].
Il CENSIS ha deciso di utilizzare il data base Scholar Search che consente di ottenere indicatori di prodotti e citazioni pro-capite, nonché l’indice H individuale per ogni singolo ricercatore affiliato ai Dipartimenti e medio per ogni aggregato desiderato (Area, SSD, Facoltà, Dipartimento, Università) sia a livello nazionale che di Ateneo) incrociando i dati tratti da Google Scholar con quelli dei settori scientifico disciplinari del MIUR.
[1] Si tratta del “Progetto sperimentale di valutazione del sistema universitario” coordinato dal CENSIS cui aderiscono i seguenti 17 Atenei: Bologna, Bolzano, Cassino, Catania, Cattolica, Luiss, Lumsa, Marche, Messina, Padova, Palermo Pavia, Perugia, Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Sassari , Salento, Torino Politecnico.
(Proposta per la costruzione di un modello di valutazione delle attività didattiche e di ricerca dei Dipartimenti, Maggio 2012, p. 8)
La prima osservazione da fare è che non esiste un data base “Scholar Search” dato che (come spiega lo stesso documento) “Scholar Search” (http://160.80.35.6/ScholarSearch/) è un’applicazione che consulta il data base Google Scholar, messa a punto dal Molecular Genetics Group (Dipartimento di Biologia) dell’Università di Roma “Tor Vergata”. Gli stessi sviluppatori declinano ogni responsabilità (o quasi) sull’affidabilità dei risultati:
DISCLAIMER: only publications reporting University affiliations were considered. Thus academics that have changed affiliation during two times windows are underrated in this evaluation. All the data was collected automatically without any attempt of manual curation.
As such we are aware that the database may contain errors and may under(over)-rate the productivity of some individuals. Thus we discourage users from using these numbers for ranking researchers without further critical evaluation. The inconsistencies may be due to a number of issues that are difficult to identify and correct: homonymy, inconsistency between names at CINECA and on the manuscripts, coverage of the Google Scholar Database, unidentified errors on our side.
Il beneficio rispetto all’uso diretto di Google Scholar è che Scholar Search incrocia le informazioni bibliometriche con le affiliazioni e i SSD italiani. Il problema della cosiddetta disambiguazione dei cognomi è ben noto in ambito bibliometrico, tanto è vero che nella procedura di abilitazione nazionale ancora in corso, i candidati si sono visti arrivare un’email dal CINECA che chiedeva la loro collaborazione per controllare la correttezza degli “agganci bibliometrici” ai database commerciali. Per Google Scholar la disambiguazione è resa ancora più difficile dal fatto che, a differenza del Web of Science e di Scopus esso non fa uso dei cosiddetti metadati. Inoltre, per Google Scholar non è nemmeno pubblico l’elenco delle riviste e delle collane indicizzate. Che Scholar Index non abbia risolto questi problemi ben noti agli esperti del settore è stato ampiamente dimostrato con esempi concreti nel seguente articolo di Antonio Banfi:
Scholar Search: all’inferno andata e ritorno.
E tuttavia il documento pavese ostenta fiducia nei taumaturgici effetti delle compensazioni statistiche:
> In generale si può assumere che le distorsioni derivanti dalle circostanze sopra accennate siano uniformemente distribuite su ciascuna popolazione di ricercatori, ad esempio appartenenti ad un dato SSD. In questo modo una appropriata normalizzazione sui valori medi nazionali del SSD considerato costituisce un indicatore sufficientemente “non distorto” della qualità media dei ricercatori del SSD locale.
Proposta per la costruzione di un modello di valutazione delle attività didattiche e di ricerca dei Dipartimenti, Maggio 2012, p. 8
In realtà, questa distorsione esiste ed è anche clamorosa. Infatti, l’articolo di Banfi era stato motivato dalle dichiarazioni di un blogger il quale, basandosi proprio sulle interrogazioni di Scholar Search, lanciava l’allarme sulla scarsa produttività dei ricercatori delle discipline umanistiche:
confermiamo due dati impressionanti! Anche considerando Google Scholar inglese e italiano, la percentuale di docenti del tutto improduttiva, sia come citazioni, sia persino come pubblicazioni, e’ intorno al 30%! Inoltre, essa e’ quasi equamente ripartita tra fasce di docenza (smentendo una ipotesi di miglioramento progressivo come vorrebbe Anvur e la logica), mentre ovviamente e’ concentrata su alcuni SSD. Quattro aree CUN (10, 11, 12, 14) e ben 130 SSD hanno oltre il 50% di settori improduttivi
Banfi mostra, in modo anche divertente, che si trattava di una bufala bella e buona, provocata proprio dalle distorsioni dello strumento in cui i pavesi hanno riposto la loro fiducia. D’altronde, Alberto Baccini dimostra che l’autore italiano più citato secondo Google Scholar interrogato tramite Publish or Perish si chiama “Capitolo I”.
Niente di nuovo, d’altronde. Chi si occupa scientificamente di bibliometria è al corrente delle falle di Google Scholar. Basta citare Diane Hicks:
[Google Scolar] is not in a form usable for structured analysis. Basically this is beacause GS is not built from structured records, that is from metadata fields. Rather that using the author, affiliation, reference etc. data provided by publishers, GS parses full text to obtains its best guess for these items.
D. Hicks, “Towards a Bibliometric Database for the Social Sciences and Humanities”
4. La bibliometria fai-da-te genera mostri: Rugge “recteur fainéant”?
Riguardo alle obiezioni da noi sollevate nei confronti di Google Scholar e di Scholar Search, qualcuno potrebbe obiettare che la pretesa di usare strumenti scientificamente validati è una fisima da perfezionisti che cercano il pelo nell’uovo. Per gli scopi della valutazione intra-ateneo, qualche imprecisione può essere tollerata a fronte del vantaggi che comporta uno strumento gratuito e facile da usare. D’altronde il prorettore Rampa è fiducioso che l’effetto di distorsioni uniformemente distribuite venga compensato dalle opportune normalizzazioni adottate da Scholar Search.
Diamo credito a Rampa e, per puro scrupolo, proviamo a valutare la produzione scientifica 2004-2010 dei colleghi pavesi appartenenti all’area 14 (Scienze politiche e sociali). Bastano pochi attimi, grazie alla comoda interfaccia di Scholar Search:
http://160.80.35.6/ScholarSearch/
La paginata completa con tutti i risultati è riportata in appendice. Nel complesso il quadro è desolante: ben nove colleghi non hanno nemmeno una pubblicazione nel periodo 2004-2010. Ve ne sono solo otto che hanno più di tre lavori nel settennio considerato. Ordiniamo i risultati per h-index decrescente e consoliamoci esaminando le “eccellenze pavesi”, ovvero i colleghi che occupano le prime posizioni (ricordiamo che l’h-index misura l’impatto scientifico di un ricercatore in base al numero di citazioni dei suoi articoli più citati: http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_H).
Il “top scientist” pavese dell’area 14 è Marco Clementi che vanta 10 pubblicazioni ed un gruzzolo di ben 368 citazioni. Niente male, davvero. Se ci sorge la curiosità di conoscere più in dettaglio la sua produzione, basta cliccare sul suo nome ed ecco l’elenco dettagliato, completo del numero di citazioni ottenute da ciascuna pubblicazione.
È davvero sorprendente che uno studioso di scienze politiche e sociali abbia interessi così vasti da occuparsi del trapianto di cellule staminali e di infezioni virali.
Guardiamo meglio: mentre delle sue pubblicazioni nel campo delle relazioni internazionali se ne rinviene solo una piccola traccia, Scholar Search ha attribuito a Marco Clementi le pubblicazioni di Massimo Clementi che è un ricercatore attivo nel campo della microbiologia. Nell’elenco, l’unico lavoro di Marco Clementi sembra essere il penultimo che al suo attivo ha una sola citazione. Se depuriamo i dati da questa omonimia, Marco Clementi precipita a fondo classifica Uno scivolone pesante anche per la sua area dato che, da solo, Marco Clementi raccoglieva più del 25% delle citazioni di tutta l’area. Con ogni evidenza siamo incappati in una di quelle distorsioni di cui Rampa era consapevole, ma non ci lasceremo certo spaventare da qualche errore episodico. Mantenendo intatta la nostra fiducia, passiamo alla seconda in classifica, Maria Antonietta Confalonieri, con le sue ragguadevoli 159 citazioni.
Sembra esserci un’omonimia anche in questo caso, dato che le pubblicazioni trattano di enzimi e piante transgeniche e nessuna è attribuibile a Maria Antonietta Confalonieri. Anche la medaglia d’argento era dovuta ad un’omonimia. Ricordando che Scholar Search è stato persino adottato dal CENSIS, non ci turbiamo per quella che potrebbe essere solo una coincidenza e passiamo alla medaglia di bronzo, Cristina Barbieri, che è anche coautrice di questo articolo.
Di nuovo, nessuna delle pubblicazioni è attribuibile alla “vera” Cristina Barbieri, ricercatrice di area 14 a Pavia, per quanto, in senso lato, le “ipermutazioni aberranti” (“Aberrant somatic hypermutation in transformation of follicular lymphoma …”) non siano del tutto estranee all’oggetto di questo articolo.
Se i “top performers” sono un prodotto del caso andiamo ad esaminare il fondo-classifica per capire quanto lo strumento sa catturare la realtà. Levando i casi di pensionamenti e decessi abbiamo sette ricercatori privi di pubblicazioni, citazioni e di h-index. Per Scholar Search qui siamo nel baratro del nulla! Ma e’ vero?
In questa desolazione viene risucchiato niente popò di meno che il neo-rettore Fabio Rugge, che tra il 2004 e il 2010 risulta avere una sola pubblicazione…
E a ben guardare si tratta solo di una recensione. Oibò, l’ateneo avrebbe eletto come rettore un professore in disarmo da anni … un “rector faineant” di un’area inattiva … oppure …
Gli autori di questo articolo e forse anche i suoi lettori non hanno però memoria che il neorettore fosse cosi scientificamente immobile. Andiamo a verificare il sito web di Fabio Rugge (http://fabiorugge.it) e scarichiamo l’elenco delle pubblicazioni (http://fabiorugge.it/wp-content/uploads/2013/02/Publications-final.pdf). Sfogliandolo, scopriamo che nel periodo 2007-2010, Fabio Rugge, oltre alla recensione di cui sopra, ha firmato altre 24 pubblicazioni.
Nel caso del neo-rettore la distorsione del database riguarda il 96 per cento della sua produzione, di cui non rimane traccia ai fini della ripartizione delle risorse. E così è per altri colleghi. I loro lavori scientifici non sono registrati dallo strumento scelto dall’ateneo. Abbiamo toccato con mano ciò che è già noto e ribadito nella letteratura scientometrica, ovvero che la base dati di Google Scholar lascia ampiamente scoperte vaste aree delle scienze umane e sociali
Difatti, se si replica l’analisi per i colleghi attivi in altri campi delle scienze umane e sociali, gli esiti non cambiano. Grandissima parte delle pubblicazioni non è registrata dal data base e una parte cospicua dei risultati proviene da omonimi che lavorano nelle scienze dure. Le omissioni e le omonimie producono dati casuali e la loro normalizzazione, lungi dal fare miracoli, non fa che mescolare le carte.
Un comportamento razionale (addentriamoci fino in fondo nel paradosso che ne scaturisce) per aumentare le risorse sarebbe quello di reclutare gente dal nome facile (insomma più Cristina Barbieri e meno Fabio Rugge) … o comunque verificare quale portato di omonimi i giovani ricercatori sarebbero in grado di raccogliere! Purtroppo però vi segnaliamo che – per ragioni costituzionali – in un bando non si può proprio prevedere preferenze per i Mario Rossi e i Primo Capitolo ….
Per valutare la ricerca scientifica e distribuire risorse l’ateneo fa uso di un database che è screditato dalla letteratura internazionale per le ragioni che abbiamo qui esemplificato. Il modello di riparto poggia una sua colonna portante su un fai-da-te bibliometrico che produce (specie in alcuni settori) esiti casuali. L’argomento (statistico) che viene addotto a giustificazione della scelta e’ che gli errori tra loro si compensano, ma i fatti dimostrano il contrario. Le omonimie e le massicce omissioni producono errori così grossolani da non ammettere alcuna compensazione statistica. Gli indicatori di una realtà non possono fondarsi sul caso. Se così è non sono indicatori seri.
Essendo appena usciti gli esiti della VQR, questo potrebbe sembrare un problema del passato. Tuttavia, l’ultima distribuzione, è stata ancora effettuata valutando la ricerca attraverso Google Scholar. Perché? Mettendo avanti ragioni di urgenza.
Riassumendo: per la didattica il modello nazionale viene accettato in modo acritico in una delle sue parti discutibili, mentre per la ricerca abbiamo scelto varianti locali ispirate al fai-da-te bibliometrico.
Per inciso, nell’ateneo alcuni dipartimenti (anche multidisciplinari) stanno imbastendo la distribuzione dei Fondi FAR al loro interno su criteri fai-da-te di definizione della produttività scientifica. È il nuovo gioco delle scatole cinesi. In assenza di un progetto, una visione di dove stanno andando, come gli atenei anche i dipartimenti giocano a fare il piccolo ANVUR, coniando nuovi criteri della produttività. Il modello di riferimento e’ lo stesso (quello premio-punitivo), sono gli involucri ad essere diversi e ciascuno produce il suo. Ogni studioso, per ciascuna scatola cinese, dovra’ dare le pezze giustificative differenziate della sua adeguatezza.
5. Presto! Presto! L’urgenza come strumento strategico
La ragione addotta per la definizione del modello di riparto entro la prima parte di luglio (prima dell’uscita dei dati VQR, prima della chiusura dei concorsi di abilitazione, prima dell’insediamento del nuovo rettore, negli scampoli che precedono le vacanze estive) era la scadenza dei punti (già scaduti a giugno e prorogati a dicembre) e i tempi delle procedure concorsuali per consumarli.
Un argomento di tipo pragmatico, un’urgenza tecnica, e’ stato posto a fondamento della decisione di un modello di riparto. In realtà questo e’ un modo normale – non eccezionale – di procedere. L’urgenza.
Molte delle decisioni politiche più complesse vengono prese adducendo argomenti pragmatici, tecnici e di urgenza per evitare di riconoscere ed esprimere apertamente una linea strategica e raccogliere il consenso attorno ad essa. La ragione e’ che è molto più difficile convincere ad una strategia comune che convogliare il consenso verso l’idea di una decisione urgente e improcrastinabile la cui mancata assunzione causerebbe un danno collettivo.
Decisioni strategiche poste in concomitanza e connessione con una specifica delibera urgente vengono più facilmente accolte in ragione dell’urgenza della seconda. L’urgenza era il bando di alcuni concorsi, il modello di riparto era la decisione generale presa contestualmente al fine di bandire con urgenza.
6. Acqua, meduse e politica del personale
La politica del personale di un ateneo e’ una decisione strategica importante. Giacché un ateneo e’ composto del suo personale professionale come una medusa di acqua, si tratta di una delle principali scelte che le università devono prendere. La situazione finanziaria e’ di tale gravità che l’attuale politica del personale degli atenei non è definibile una politica di sviluppo ma di “inviluppo”. Consiste in un piano di sopravvivenza. Questo non la rende meno importante. Anzi. I piani di sopravvivenza sono – per definizione – più importanti dei piani in tempi normali.
Il modello di riparto e’ un aspetto della politica del personale. La politica del personale si compone di tre parti o fasi:
- il piano triennale
- il modello di riparto
- la distribuzione delle risorse.
Lascia abbastanza perplessi che questa politica così cruciale sia stata messa in atto alla fine del mandato di una governance uscente. La principale spiegazione puo’ essere riconosciuta nel fatto che la politica del personale non e’ concepita e argomentata come la traduzione di una visione strategica dell’ateneo, bensì come un processo “incrementale”, “evolutivo”, per via di aggiustamento. L’ateneo si muove, e si illustra agli osservatori che vogliano comprenderne le scelte, come un sistema amministrativo che si rimodella nel faticoso adeguamento reattivo alle richieste ministeriali. E’ generalmente condivisa l’opinione su quanto sia complicato, frustrante e persino avvilente inseguire, capire ed applicare le politiche governative. Di come esse non permettano di vedere l’orizzonte. Eppure facciamo sostanzialmente solo quello: siamo degli esecutori reattivi incrementali. Le decisioni più importanti sono pertanto inserite, progressivamente, nella continuità gestionale ogni qual volta appare inevitabile e improrogabile assumerle.
In questo senso si capisce perché le politiche possono essere attuate in qualunque momento, in un intreccio continuo, senza soluzione di continuità. E perche’ si tenda a detrarre rilevanza alle scelte strategiche (che comunque vengono prese), dando ad esse il significato di soluzioni tecnico-amministrative meramente reattive e non proattive. Non c’è attitudine e intenzione a sottolinearle e valorizzarle. Del resto i processi che vengono proposti e percepiti come incrementali (un cambiamento parziale dello status quo) hanno un potere tranquillizzante.
7. Non c’è trippa per gatti: la programmazione triennale
La distribuzione delle risorse del personale deve ora per legge fondarsi su una programmazione triennale dell’ateneo. In teoria, essa dovrebbe stabilizzare le aspettative per tre anni (e distogliere l’attenzione e preoccupazione della destinazione delle risorse, aiutando a tollerare le carenze di oggi con le prospettive di domani). Tutto questo, naturalmente, e’ largamente falsificato dalle condizioni di finanziamento decrescente e irregolare che rendono ogni prospettiva aleatoria. Ma tant’è: se gli atenei non alzano lo sguardo non saranno meno vittime, lo saranno solo di più.
In Senato si è passati dalla politica del personale fuori sacco, alla politica delle anticipazioni, e infine e’ stato avviato il processo decisionale relativo al piano triennale. A quel punto e’ emersa chiaramente nuda e cruda la verità. I numeri veramente irrisori delle risorse in gioco. Con l’eccezione del piano associati che è una iniezione di risorse consegnata ad hoc per tirare i ricercatori giù dai tetti e riportarli in aula (soldi che mai gli atenei avrebbero visti senza la protesta dei ricercatori), per il resto la presentazione del piano triennale mostra con estrema chiarezza innanzitutto che non c’è trippa per gatti.
Dal 2013 al 2016 le esigenze scientifiche e didattiche di diciotto dipartimenti di varia grandezza (nel silenzio totale sulle realtà che li travalicano – corsi interdipartimentali e facoltà – come se non ci fossero) hanno intravisto la seguente “torta” da spartire: niente popò di meno che 8 reclutamenti rda, 22 rdb e 22 posizioni di po. In tutto. In tre anni. Questo il piano Rampa presentato in anteprima ad una inedita platea: una commissione istruttoria senatoriale che si occupa di reclutamento, la Consulta dei direttori (commissione consultiva di ateneo istituita su richiesta degli stessi direttori), i membri del Consiglio di amministrazione.
Quei piccoli numeri erano, peraltro, il massimo possibile ipotizzabile sulla base di una aspettativa finanziaria di crescita del FFO. Un piano definito “modulabile” nel caso di errori di valutazione delle prospettive – su cui bisogna, come noto andare a tentoni. Le aspettative sottese al piano sono peraltro state messe subito in discussione dai membri del CdA (durante la presentazione di cui sopra) sulla base dell’argomento – non del tutto peregrino – che la previsione di una crescita del FFO non fosse realistica guardando a quello che è successo negli ultimi anni (essendo esso sempre decresciuto) e che la modulabilità fosse difficile se venivano impostate nuove spese strutturali da cui non si potesse recedere.
Mentre il CdA faceva dunque il suo sporco lavoro annunciando che lo avrebbe messo in discussione per ragioni di sostenibilità, il modello Rampa “a colonna senza base” (8 rda, 22 rdb, 22 po). superava – con alcune difficoltà – la prima presentazione a questa larga platea (commissione reclutamento del SA, Consulta dei direttori, membri del CdA) e diveniva poi oggetto di un conflitto senatoriale che si concludeva con un voto a maggioranza. Con questo voto, la proposta del Senato diventa un diverso modello: “a colonna con base” (16 rda, 18 rdb, 18 po).
8. La politica di reclutamento: tipo A o tipo B?
La discussione strategica principale in Senato ha riguardato dove iniettare le scarse risorse di reclutamento: rdb o rda? I principi e gli interessi divergevano. Il conflitto però non è stato risolto attraverso la prevalenza di un principio o un’alta mediazione tra i principi in gioco.
Nessuna scelta e’ stata compiuta sul problema teorico (e di principio) fondamentale e quindi conviveranno nell’ateneo due filosofie sulla politica del personale, divergenti e contrapposte, che in Senato hanno visto una mera esposizione e nessuna composizione. Da un lato, la filosofia di un rapporto tra reclutamenti di ricercatori di tipo a e di tipo b per configurare un percorso di accesso (ad imbuto); dall’altro, la filosofia che interpreta il ricercatore di tipo a come uno strumento funzionale a necessità temporanee di ricerca e didattica, non certo un investimento, ma una giovane forza da utilizzare per poi procedere ad una sostituzione certa. Una parte di questo ateneo rifiuta il principio della precarizzazione del sistema ed una parte lo teorizza apertamente. Entrambe le teorie convivono, a discrezione dei direttori dei singoli dipartimenti.
In Senato il ragionamento in materia non è approdato ad una composizione delle istanze di principio, non soltanto per la difficoltà oggettiva di comporre principi così divergenti, ma piuttosto per altre due ragioni. Da una parte la ricerca di soluzioni pragmatiche e’ ritenuta il modo più opportuno di risolvere i conflitti. Dall’altra, la discussione in materia era inficiata dalla distribuzione degli interessi.
I principi in gioco nella discussione erano alti, ma la fiducia e l’intenzione di trattarli come tali non poggiava su un terreno solido. L’accusa che fossero argomenti retorici che sottendevano interessi dipartimentali è stata espressa anche apertamente. A quale distribuzione degli interessi si faceva riferimento?
I ricercatori rda in scadenza sono distribuiti in modo irregolare nell’ateneo. Attualmente non tutti i dipartimenti hanno rda. I senatori delle aree che attualmente non ne hanno non erano interessati a sostenere un piano incentrato su ricercatori di tipo b (quale era il piano Rampa) e si sono dimostrati sospettosi verso gli argomenti di principio espressi in particolare dai rappresentanti di Economia e Lettere e – più in generale – dell’area umanistica. Questo, indipendentemente dalla opinione che essi nutrivano sul possibile rapporto tra ricercatori di tipo a e b nel tempo.
Si è così saldata una alleanza pragmatica tra sostenitori della filosofia della precarizzazione del sistema ed esponenti di aree dell’ateneo prive di ricercatori di tipo a in scadenza, che ritenevano importante (in generale e poi in particolare per i loro dipartimenti) aprire una possibilità di accesso alla “seconda generazione” di giovani studiosi. La saldatura pragmatica ha votato un “modello a colonna” che riduceva il numero di rdb del piano Rampa e aumentava il numero di rda su fondi di bilancio. La proposta senatoriale in tema di piano triennale diventava cosi un voto maggioritario su un modello alternativo a quello rettorale, voto che esprimeva una divergenza, ma non proponeva al CdA una visione generale sulla politica di reclutamento.
Il prorettore Rampa ha proposto in CdA il suo piano a “colonna senza base” come preferibile rispetto alla proposta della maggioranza senatoriale a “colonna” sulla base di motivazioni finanziarie. Il CdA ha deliberato autonomamente una terza soluzione – finanziariamente ancora più sostenibile – che riduce e spalma nel timing, procrastinandole, tutte le principali spese strutturali e incrementa quelle non strutturali (rda), secondo un modello ” a piramide” (19 rda, 16 rdb, 13 po).
In questo processo decisionale il CdA ha assunto il suo ruolo istituzionale di decisore di vertice. Il Senato ha avuto un ruolo di discussione e “decantazione”. L’ateneo resta diviso (disperso) sulla filosofia della politica di reclutamento.
In ogni caso, i numeri miserrimi su cui si è deciso lasciano ancora aperta la possibilità di ragionamento sui principi di sviluppo del personale dell’ateneo, se ci sarà l’interesse generale a farlo.
9. Il mercante in fiera: la vera funzione del modello di riparto
La definizione del modello di riparto e’ avvenuta – a maggioranza – all’interno di una commissione istruttoria senatoriale (Commissione reclutamento) che il contingentamento dei tempi ha reso deliberante in materia (contro il dettato statutario). Il punto politico fondamentale di discussione sul modello di riparto ha riguardato come inserirvi (sulla base dell’intenzione rettorale ferma di inserirlo) il piano straordinario associati.
Non è stata permessa nessuna discussione sugli indicatori della ricerca e della didattica di cui abbiamo proposto più sopra una prima analisi critica. È stato invece modificato il senso del modello di riequilibrio sostituendo la “terza colonna” (le prime due colonne essendo quelle relative alla ricerca e alla didattica), la colonna della “consistenza”, con indicatori congrui al piano associati (numero di ricercatori, numero di abilitandi – in assenza di dati sugli abilitati).
Ne e’ scaturito un modello che distribuisce ai dipartimenti punti per le promozioni e per i reclutamenti, in ragione di criteri “vecchi”, relativi alla ricerca e alla didattica, mantenuti tali e quali e non discussi, e in ragione di criteri “nuovi” relativi alla “consistenza” che “premiano” i dipartimenti dove sono numerosi i ricercatori a tempo indeterminato (che hanno fatto domanda di abilitazione). Ma i criteri “nuovi” sono sensati e compatibili solo con il piano straordinario associati non con il resto della logica distributiva: reclutare o far progredire a po non è in nessuna relazione logica con il numero di ricercatori del dipartimento.
La giustificazione addotta è che il piano associati è la più sostanziosa delle poche risorse da distribuire. Ma il vero punto politico era evitare di tenere separato il piano straordinario associati (che sarebbe – per il vero – separato per legge) ed esso ha prevalso su ogni altro ragionamento. Perché? La spiegazione e’ stata espressa in termini di “flessibilità”. La flessibilità dipartimentale alla contrattazione:
In relazione alla necessità di rispettare i vincoli relativi ai ruoli, al timing definito dagli Organi di Governo e alle disposizioni normative, sarà necessario che ogni dipartimento dichiari il proprio ordine di priorità di reclutamento delle diverse posizioni. Quindi, tra e all’interno delle macro-aree si dovranno trovare gli accordi e definire eventuali compensazioni utili al soddisfacimento delle differenti esigenze.
Verbale 09/07/2013 della Commissione Reclutamento e distribuzione risorse personale docente
La principale funzione politica del modello di riparto – a ben guardare – era infatti quella di strumento di governo che dava il via e affermava il diritto alla trattativa dipartimentale su ogni risorsa, anche sul piano associati (sulla quale aleggiava il non nascosto timore che il dissenso dei ricercatori potesse creare difficoltà). Per questa ragione la discussione girava a vuoto sugli altri punti del modello e si concentrava su due domande: come inserire nella torta il piano associati? E quanto del piano triennale ripartire?
La sua funzione era consentire potenzialmente qualsiasi scambio. Prima di tutto, prima di ogni altra regola del gioco nello scambio, occorreva assicurarsi la libera circolazione della moneta più diffusa: le progressioni a PA, i posti del piano straordinario associati.
Il Rettorato – nelle vesti del prorettore Rampa – conosceva già le risposte alle due domande. Fin dalla prima riunione della commissione le ha espresse: “torta unica” e spartizione di due anni del piano triennale. Le risorse di due anni del piano triennale, infatti, costituivano uno stock di risorse sufficienti a compensare – nella trattativa interdipartimentale – anche le richieste di risorse di bilancio più consistenti (sempre nella penuria generale, si intende). Rampa sapeva bene che in questa trattativa alcuni dipartimenti (tra cui anche il suo) dovevano “vendere” ad altri dipartimenti la maggior parte delle progressioni ad associato di due anni e lasciare ad altre aree le progressioni ad ordinario perché i conti potessero tornare. E viceversa.
10. Le regole della fiera: chi può comprare cosa
Il prorettore ha proposto e accolto alcune regole del gioco (vincoli di comportamento nella trattativa) per disincentivare nel “matching” – sono parole sue – le richieste relative ad altre risorse.
In estrema sintesi le regole della trattativa erano:
a) La priorità di assegnazione delle promozioni dei PA sarà riservata ai dipartimenti che hanno un minor numero di PO rispetto ai PA”
b) Per il reclutamento dei ricercatori di tipo a) la priorità di assegnazione sarà garantita alle strutture che nei precedenti due anni non hanno avuto l’opportunità di effettuare chiamate su fondi esterni”.
Verbale 09/07/2013 della Commissione Reclutamento e distribuzione risorse personale docente
Singolarmente, il piano straordinario associati (che ha fini specifici per legge) non aveva invece alcun vincolo di comportamento nella trattativa. Detto altrimenti, il modello di riparto distribuiva il numero di progressioni per dipartimento in modo particolarmente chiaro, sulla base di criteri molto semplici (numero di ricercatori, numero di domande di abilitazione), la trattativa tuttavia non prevedeva per quel tipo di risorsa nessuna regola del gioco, lasciando libera la loro compravendita e quindi l’elusione dei criteri.
Sono invece cadute le proposte di regole “meritocratiche”. Quando dall’ideologia astratta del “merito” si passa alla definizione dei criteri emerge più chiaro che la responsabilità di scelta di “chi merita” di ottenere un posto non è banalmente sostituibile con una regola del gioco generale. Non sono quindi state introdotte le seguenti regole di cui pure si è discusso:
i) scrivere su un bando che si privilegiano i candidati abilitati (o coi titoli per diventarlo) per un posto di rdb perche’ non si può per legge (rimane un generico auspicio);
ii) scrivere sul bando il privilegio per candidati ricercatori che sappiano attrarre risorse finanziarie: non e’ un criterio scientifico convincente per tutti o giudicato idoneo a selezionare giovani ricercatori di ogni settore;
iii) creare una commissione d’ateneo che valuti aspiranti po sulla base dei loro “meriti”.
11. Pronti, via! Si gioca
Dalle due regole del gioco (a, b) della trattativa scaturiva una conseguenza: esse generavano dipartimenti “compratori” di progressioni a pa in quanto esse impedivano loro di fare altre richieste.
Per il vero le regole non sono state applicate in modo preciso. Non era in effetti ritenuto così importante. La loro funzione era stata espressa dal Rettorato in modo molto chiaro: agevolare la trattativa perché raggiungesse un esito. Se poi questo esito veniva raggiunto comunque derogando in qualche misura alle regole, ciò non avrebbe costituito problema. Le regole erano per il prorettore degli strumenti facilitatori, non contenevano dei fini considerati rilevanti.
Il principio relativo alla “struttura” dei dipartimenti (il rapporto numerico tra le categorie) – che sottendeva le due regole del gioco – e’ un aspetto ritenuto importante solo da una parte degli attori di governo di questo ateneo: alcuni senatori e consiglieri. Il Rettorato e altri attori non lo considerano importante (come si evince in particolare dal piano straordinario associati). Non è quindi neanche questa una direzione di principio generale condivisa.
Il prorettore Rampa non è riuscito a impostare una politica di ateneo, ma la sua linea (di massimizzazione del reclutamento di rdb) e’ divenuta la politica della macroarea umanistica. Possiamo dire che sia stata impostata una sorta di “politica di macroarea” indirizzata a tenere significativo il numero di ricercatori di tipo b, in coerenza con il piano Rampa e in controtendenza alle direzione prevalente delle altre due macroaree che ne volevano ridurre il numero (e aumentare i ricercatori di tipo a).
12. Il tavolo di gioco, il broker e l’albero
I risultati del lavoro della Commissione reclutamento (il modello di riparto e la sua applicazione) sono stati presentati ad un tavolo che è divenuto, di fatto, prevedibilmente e da quel momento – benché contra legem – organo di governo dell’ateneo: la Consulta dei direttori.
Ai direttori e’ stato chiesto, anzichè di discutere il modello di riparto, di recepire (per mancanza di tempo) la distribuzione dei punti e avviare la trattativa interdipartimentale per la distribuzione delle risorse previste dal piano triennale, entro pochi giorni, per arrivare in Senato accademico con una distribuzione delle risorse su due anni. Da questo punto in poi, naturalmente, la discussione sul modello si e’ definitivamente chiusa. Giacché sulla distribuzione di punti si fondava la trattativa (sono le fiches del tavolo da gioco) si è smesso di discutere sulla macchina generatrice dei punti e si è cominciato a giocare.
La trattativa e’ stata condotta entro le macroaree e poi tra macroaree, tendenzialmente con un referente per macroarea e il prorettore Rampa come “broker” (la definizione e’ sua). Si è protratta lungo il fine settimana che precedeva la seduta senatoriale. Raggiunto l’accordo spartitorio tra i dipartimenti delle (magre) spoglie, si è proceduto a qualche aggiustamento di timing (per rispettare i tempi del piano triennale del Cda) in una nuova riunione tra Consulta dei direttori e Commissione reclutamento, che accoglieva l’esito della trattativa.
Infine si è approdati agli organi che hanno ratificato quell’esito (ciascun organo con un voto contrario e il Senato con qualche astensione).
Dunque, la ripartizione delle risorse e’ stata frutto di un equilibrio degli interessi dipartimentali, generato attraverso un raccordo tra direttori dei dipartimenti, coordinato dal prorettore. Ciascuna macroarea ha – in questa fase – coinvolto come riteneva opportuno i senatori e i consiglieri oltre che i direttori della stessa.
Questo tipo di processo decisionale e’ avvenuto comunque fuori dagli organi di governo istituzionali (Senato e Cda), organi che non sono costituiti dai loro membri “uti singuli” incontrati altrove, ma dal loro consesso e dalla loro interazione argomentativa, che hanno rappresentanze studentesche nel loro seno e che prevedono la verbalizzazione del processo di decisione (per conoscenza pubblica e memoria istituzionale).
E’ stata invece attivata una rete decisionale nuova, ad albero, che vitalizza il ruolo delle macroaree (incontri tra direttori e senatori) e, al loro interno, stimola l’identificazione di una sorta di leadership funzionale mediatoria, che, a raggiera, si connette con il Rettorato. L’albero ha come “tronco” il Rettorato (in questo caso nella figura del prorettore Rampa), i rami periferici sono i direttori, tre rami intermedi rappresentano questa nuova realtà politica (di derivazione dal sistema elettorale) che sono le tre macroaree. Le tre macroaree hanno struttura interna differenziata e ne derivano tre luoghi di relazioni interdipartimentali piuttosto diversi.
13. Le politiche del personale: qualche conclusione e una domanda
Il processo decisionale sulle politiche del personale (reclutamenti e progressioni) si è svolto in questo modo:
- Centralizzazione in capo al Cda del momento di definizione del pacchetto delle risorse previste dal piano triennale. Sono state messe in risalto le ragioni della sostenibilità finanziaria del medesimo ed è stato deliberato un “modello a piramide” che ha sostituito quello a “colonna senza base” proposto dal Rettorato. Durante il processo decisionale si sono scontrate soluzioni diverse senza una composizione delle visioni e strategie delle politiche del personale, sulle quali l’ateneo rimane diviso (disperso).
- Una netta decentralizzazione in capo ai dipartimenti delle logiche di distribuzione delle risorse con la mediazione rettorale e le macroaree come luogo di “prima compensazione” della trattativa. Il percorso istituzionale negli organi di governo diventa ratificatorio e sostanzialmente irrilevante. Le decisioni sembrano essere state prese (la presunzione e’ d’obbligo perché il luogo era informale e non pienamente visibile) in modo consensuale.
- La definizione del modello di riparto e’ risultata “schiacciata” tra le altre due fasi decisionali e non ha completato il suo percorso corretto nei luoghi di governo prima dell’avvio della distribuzione delle risorse per ragioni di urgenza. La rilevanza dei problemi che sottende il modello e’ stata tenuta viva solo da alcuni senatori, consiglieri e direttori che concordano sulla necessità di una revisione meditata e di attribuire allo strumento di riparto il suo significato e valore.
In generale, sulla politica del personale dell’ateneo la domanda più saliente rimane:
qual è?
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APPENDICE
Di seguito sono riportati gli indicatori bibliometrici relativi alle pubblicazioni pavesi 2004-2010 dell’area 14 (Scienze politiche e sociali) ottenuti interrogando Scholar Search, lo strumento bibliometrico usato dall’ateneo per valutare la ricerca. Come discusso nell’articolo i risultati sono inaffidabili. La base dati, oltre a non indicizzare la quasi totalità delle pubblicazioni dei ricercatori elencati, attribuisce ad alcuni di essi le pubblicazioni di omonimi che lavorano in settori del tutto diversi. Nel caso del neo-rettore Fabio Rugge mancano 24 pubblicazioni su 25.
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È degno di nota che nel periodo 2004-2010 il neo-rettore Fabio Rugge ha anche ricoperto un incarico istituzionale (preside di facoltà) e, ciò nonostante, non ha cessato di pubblicare. Un impegno del tutto inutile (ai fini della valutazione, e non certo per la scienza) se per le valutazioni bibliometriche ci si affida a strumenti amatoriali. La valutazione individuale (il singolo ricercatore) e quella collettiva (un dipartimento o un ateneo) non possono essere affrontate allo stesso modo. Per gli individui, la necessità di tener conto di fattori che influenzano la produttività, come per esempio il carico di lavoro legato ai ruoli istituzionali non è il solo problema. Infatti, la letteratura scientometrica e anche importanti società scientifiche internazionali sono concordi nel respingere l’uso automatico della bibliometria per valutare i singoli ricercatori, anche nelle scienze dure. In questa direzione si è espressa la recente San Francisco Declaration on Research Assessment (http://am.ascb.org/dora/), sottoscritta da numerosi scienziati (più di 9.000) ma anche da riviste, società e associazioni scientifiche (più di 380 tra cui l’American Society for Cell Biology, Telethon, Science, Plos e PNAS). Con le dovute cautele, i database bibliometrici possono essere usati per valutazioni su scala aggregata in quei campi dove essi coprono adeguatamente la produzione scientifica. Nel caso delle scienze umane e sociali, è però priva di fondamento l’idea che Google Scholar possa fare meglio di Web of Science e Scopus, il cui uso è essenzialmente limitato alle scienze dure. Nell’articolo, si mostra che il naufragio non riguarda solo la valutazione del neo-rettore, ma quella dell’intera area di scienze politiche e sociali. Problemi del tutto analoghi si evidenzierebbero negli altri dipartimenti umanistici. La valutazione e la bibliometria sono ormai discipline scientifiche, non prive di trabocchetti, a cui non è il caso di accostarsi con l’attitudine del “piccolo chimico”.
L’analisi di Cristina e Giuseppe è chiara, documentata e ha l’obiettivo di stimolare il dibattito e ascoltare anche voci discordanti. E molto importante che il tema sia al centro della riflessione di tutti, perché la politica del personale di un Ateneo ha una valenza strategica fondamentale. Gli investimenti in ricerca scientifica, sia sui beni materiali sia sulle persone devono sicuramente essere guidati da criteri di qualità obiettivabili ma non possono secondo me prescindere anche da una dose di discrezionalità guidata da valutazioni difficilmente schematizzabili in coefficienti numerici e che possano anche parzialmente uscire dai valori del “mercato scientifico “in cui viviamo al momento. Il mercato scientifico, sui tempi brevi, non sempre valorizza chi affronta problemi scientifici complessi, chi lavora al superamento di paradigmi, e chi esplora campi nuovi. Intelligenza, creatività, intuito, cultura e reputazione non sempre si trasformano negli indici d’impatto di maggior livello e I ricercatori che hanno queste qualità non si possono perdere.Gli automatismi legati agli algoritmi vanno in parte superati e l’Ateneo dovrebbe far sentire di essere ispirato da una propria convinzione e da un proprio progetto nella politica di reclutamento e promozione del personale. Sono convinto che l’azione determina fortemente la propria identità, e forse si potrebbe da subito pensare a un sistema per il reclutamento e la promozione di ricercatori che abbiano queste caratteristiche, magari con risorse messe a disposizione di un board misto (interno esterno) che promuova bandi aperti, non strettamente dipendenti da una gestione dipartimentale, e in cui si lasci ampia discrezionalità nella valutazione della qualità delle proposte.