di Cristina Barbieri
Un ateneo credo debba conoscere se stesso e avere un progetto su se stesso.
Di questi tempi sono convinta che un ateneo debba avere anche un piano di salvezza. Di sopravvivenza. Che non è la stessa cosa. E’ la differenza tra assicurarsi che la barca stia a galla e proteggerla in porto quando necessario da una parte e avere un viaggio in serbo dall’altra.
Il modo peggiore per avere un progetto di se stessi penso sia imbastire una rotta senza avere meditato il viaggio e condiviso la meta.
Il modo peggiore per fare un piano di salvezza penso sia non aver studiato le carte nautiche, non conoscere le rocce e i venti, navigare a naso e a vista senza essere un marinaio di lunga pezza.
Esco dalla metafora.
Credo occorra una consapevolezza pragmatica (non ideologica) di come metterci in sicurezza tenendo sotto controllo il rischio finanziario e gli infiniti vincoli normativi (piano di sopravvivenza). E ho idea che in questo momento il principale obiettivo per mettere in sicurezza il sistema sia dedicare intelligenze ed energie ad aumentare gli studenti dell’ateneo e che qualunque altra azione non sia un piano di sopravvivenza (chiedo di dimostrarmi che non è così, che mi sto sbagliando: sono pronta a rileggere le carte nautiche con chi le conosce meglio di me ed abbia un piano credibile). Alcuni di noi possono pensare che questo fine sia comunque un bene, altri che il rapporto docenti/ studenti venga alterato in modo negativo. Penso che esistano motivazioni serie in entrambe le tesi, ma su questo punto ne faccio una questione pragmatica: come si regge altrimenti l’ateneo nel contesto finanziario e normativo in cui si trova?
Al tempo stesso credo sia auspicabile avere una meta ideale. Più vicina possibile al senso profondo e quotidiano del nostro mestiere e non impiccata alle astruserie ministeriali e anvuriane.
Al momento direi che non abbiamo né l’uno né l’altro (né un progetto, né un piano di salvezza) ma stiamo comunque impostando con grande precisione un indirizzo, una rotta, un convogliamento di energie, una direzione netta e precisa verso cui la nave sta andando.
Come?
Gli strumenti già in gioco, a parte il piano strategico di ateneo su cui torno alla fine, sono: il modello di riparto (già fatto) e il regolamento che ci daremo sugli scatti stipendiali (da fare prossimamente).
1. Il modello di riparto (approvato negli organi e quindi esecutivo) convoglierà – nolenti o volenti – le principali energie dipartimentali a cercare di preservare o aumentare la propria fetta di torta che il modello ha spartito. Quando le risorse sono drammaticamente scarse i criteri dei modelli di riparto diventano ferocemente attivi. Più di quanto lo siano mai stati. E’ nella natura razionale delle cose.
Che rotta sta indicando il modello di riparto? Secondo una logica premio-punitiva ci dice quali sono gli indicatori che interessano all’ateneo. Sono degli indicatori della premialita’ ministeriale corretti e parzialmente mediati. E’ un piano di salvezza? Io dubito fortemente (e chiedo dimostrazione contraria) che tendere alla premialita ci metta in sicurezza e quindi non penso sia un piano di salvezza. Credo invece sia – nell’ottica di chi lo ha formulato – una “meta ideale” rispetto alla quale esprimo tutte le mie più profonde perplessità che sia in grado di essere un buon progetto dell’ateneo e rinvio a questo commento (link).
2. Un mezzo di indirizzo delle energie individuali sarà poi il Regolamento relativo agli scatti stipendiali che verrà discusso nella Commissione reclutamento e distribuzione delle risorse del Senato prossimamente. I comportamenti hanno un nuovo condizionamento all’orizzonte prossimo venturo: lo stipendio. E non è un condizionamento insignificante se un ateneo ti dice cosa vuole che tu faccia e non faccia dandoti più o meno stipendio.
Per ora abbiamo avuto solo un assaggio dello strumento stipendiale con l’una tantum (che è circoscritta nel tempo ).
Avremmo dovuto condannare con forza il blocco degli scatti e la restituzione parziale e vincolata che obbligava ad imbastire criteri di esclusione del 50 per cento dell’ateneo da un diritto connesso al nostro dovere di amministratori pubblici dedicati ad una funzione sociale non propriamente secondaria. E invece non abbiamo detto una parola pubblica e abbiamo fatto il compito a casa zitti e muti (testimonianza di una coda di paglia incredibile).
Naturalmente, qualunque Regolamento sia stato fatto per distribuire l’Una tantum esso genera legittima frustrazione. Come poteva essere diversamente? Almeno il cinquanta per cento dei colleghi dell’ateneo non avrà lo scatto stipendiale per quegli anni in cui aveva maturato il diritto ad averlo. Vi sembrano bubbole? Le regole che decidono chi lo avrà sono altamente opinabili, escludono lavoratori che possono ritenersi ingiustamente esclusi rispetto ad altri. Ma per me non è il punto principale. Non concordo con chi pensa che sarebbe stato possibile renderle buone. Esse creano un vulnus troppo profondo perché possano essere buone. Possono solo essere più o meno schifose a seconda del punto di vista.
Nelle intenzioni del prorettore alla ricerca -che presiede il processo -il Regolamento per gli scatti sarà meno rozzo dell’Una tantum ma seguirà la stessa logica: una “patente a punti” che permetterà di stilare un elenco dei membri di questo ateneo (da Pinco a Pallo) i quali, per avere il loro diritto negato allo scatto stipendiale, dovranno competere tra di loro nella cumulazione di diritti standardizzati (i punti) per posizionarsi adeguatamente nella lista. Cumulare prove standard del proprio maggiore diritto allo stipendio rispetto al collega diventerà un esercizio di razionalità quotidiana. La mia tesi e’ che una parte delle energie individuali verranno catturate da questo strumento se non per mero calcolo almeno nel rispondersi alla domanda: cosa si vuole da me? Cosa non interessa di quello che io faccio?
Entrambi gli strumenti sono dunque degli indirizzi comportamentali che avranno un potere non solo nel definire cosa fare, ma anche nel detrarre rilevanza a tutte le cose che facevamo per spirito di servizio e senso del nostro lavoro che non siano adeguatamente codificate dal modello di riparto e dalla “patente a punti”. E poiché la codifica dello spirito di servizio, della dedizione a mille cose, della onestà intellettuale nell’atto scientifico, della coscienziosità didattica e via discorrendo sono incatturabili dagli indicatori di un modello di riparto e dagli indicatori di un Regolamento per gli scatti la parte migliore di noi e’ destinata alla frustrazione nell’atto stesso di comprensione e di accettazione dei due strumenti.
I due strumenti contengono (in questo momento in cui gli sguardi sono puntati a capire dove dobbiamo andare) indirizzi specifici e precisi e una grande forza demotivante, quando ne prenderemo coscienza.
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Nel suo intervento Epifanio Virga sottolinea il rischio di disorientamento e di dispersione di energia tra due azioni di governo: il piano strategico d’ateneo e il fund raising.
Penso che il tema sia corretto ma non siano quelle le due principali azioni di governo direttrici disorientanti bensì: il modello di riparto e il piano strategico di ateneo.
Essi sono due modi diversi di fare un progetto. La definizione del modello di riparto è molto frenante nei confronti di un progetto impostato in modo diverso per una ragione banale. Tutti i dipartimenti (specie che hanno un discreto vantaggio nella ripartizione del modello di riparto) non sono certamente stimolati a mettersi ora in gioco su un nuovo e ambiguo tavolo.
E’ normale che si formi una resistenza: non solo a questo punto c’è una torta divisa ma ci sono i criteri per tagliare la torta. Razionalità vuole che i dipartimenti chiedano la torta con tutta la farina che c’è e si mettano a competere su quei parametri per la prossima fetta.
Il taglio della torta diventa dunque il progetto (cioè i criteri del modello diventano il progetto). Anche se non ce ne siamo accorti, ce ne siamo dati uno. I gradi della nostra rotta sono fissati dal modello di riparto e ci portano verso un orizzonte ignoto ma molto molto preciso. Dettagliato.
Il piano strategico d’ateneo è un progetto molto diverso da un modello di riparto. E’ l’esatto contrario di una rotta standardizzata e precisa. Qui si dice solo che dobbiamo darci un orizzonte e una meta e la direzione è tratteggiata genericamente. E’ una mano che propone l’orizzonte.
Penso che il modello di riparto non sia un piano che metta in sicurezza l’ateneo ma intenda essere un progetto (che non condivido). Non so se il piano strategico d’ateneo conterrà elementi per mettere in sicurezza l’ateneo ma certamente vuole essere un progetto di altra natura rispetto al modello di riparto (difficile dire se lo condivido o no perché e’ ancora tutto da fare: posso dire che condivido in generale l’idea di darsi un progetto di ateneo e un piano di salvezza).
Prima di discutere del piano strategico però credo che si debba mettere in luce questo aspetto di complessa convivenza tra idee diverse di orizzonte.
Cristina Barbieri